Riceviamo e pubblichiamo volentierio una lettera con delle riflessionidi una lavoratrice pubblica.

Io lavoratrice pubblica da 23 anni. di Simona Benedetti

dipendente del Comune di Como e coordinatrice RSU – FP-CGIL

La mattina una persona si alza e va a lavorare. Timbra come tutti i lavoratori, ha doveri come tutti i lavoratori e ha diritti come tutti i lavoratori.

Ma allora perché ripetere “come tutti i lavoratori”? Perché questa persona è una dipendente pubblica.

Non lo è per scelta o per vocazione. 23 anni fa si è iscritta ad un concorso e l’ha passato. Certo ha dovuto studiare per mesi, ha dovuto dimostrare di essere all’altezza del ruolo per il quale sarebbe stata assunta.

Ecco il “privilegio”: nel corso del colloquio orale nessuno le ha chiesto se fosse fidanzata o avesse in “cantiere” di fare qualche figlio, i componenti della commissione d’esame le hanno chiesto di ordinanze sindacali, parlamento, atti amministrativi, salvataggio file, formule excel, insomma a loro interessava solo che avesse una base adeguata di capacità, sufficiente per la copertura della posizione a concorso.

È stata assunta come Collaboratore Terminalista, 22 anni fa.

Ha partecipato ad un altro concorso, risultata idonea, nel 2008 è passata di livello diventando Istruttore Tecnico Informatico, sempre nello stesso ente.

Dal 2008 ad oggi il numero dei dipendenti nel suo ente è stato ridotto di un quarto, non ha avuto scatti di anzianità e il suo stipendio mensile è aumentato di circa cinquanta euro grazie al contratto collettivo degli enti locali 2016/2018 che è stato rinnovato dopo 10 anni di vacanza, il 21 maggio 2018, 7 mesi prima della scadenza.

É semplice e comodo focalizzare l’opinione pubblica sullo stipendio sicuro ma un rinnovo di contratto non è solo una questione economica. Ci sono rivendicazioni aperte ben diverse che vanno dalla mancanza di personale, all’organizzazione, alla sicurezza, alla formazione.

Lavorare in sicurezza, essere adeguatamente formata, avere la capacità di offrire risposte ai cittadini è una rivendicazione non fine al lavoro stesso del dipendente pubblico ma è un beneficio per tutti cittadini.

L’emergenza sanitaria che stiamo vivendo non ha fatto altro che portare a galla tutte le contraddizioni che negli anni hanno caratterizzato il pubblico impiego, a quale prezzo? Quante morti potevano essere evitate?

Forse non era prevedibile questa pandemia, ma è ovvio che se una struttura sanitaria ha come obiettivo la razionalizzazione dei posti letto, dei dispositivi medici, delle apparecchiature, del personale e non il bene e la salute del cittadino non ci sì può aspettare molto di più.

I dipendenti pubblici si sono dovuti riorganizzare tra presenza, essenzialità, smartworking, disponibilità, uffici aperti, uffici chiusi, appuntamenti, malattia, paura, incertezza, allo sbaraglio.

Ogni ente si è reinventato e i dipendenti hanno messo a disposizione le loro capacità e i loro mezzi.

Si, molti “privilegiati del pubblico” impiego hanno comprato computer, stipulato contratti per la linea internet, usato i loro mouse per lavorare da casa. Quanti dipendenti privati hanno fatto lo stesso? In alcune aziende private vengono fornite anche sedie ergonomiche per il telelavoro ma nessuno mette alla gogna i lavoratori che richiedono la sedia comparandoli a chi perde il lavoro, è in cassa integrazione o deve ricorrere ai buoni alimentari per mangiare.

Negli enti pubblici, in pochi giorni, sono state create infrastrutture adeguate a garantire la possibilità di lavorare in telelavoro, quasi tutti hanno messo a disposizione i loro dispositivi ed hanno continuato a lavorare. Una platea di lavoratori mediamente cinquantenni, non “nativi digitali”.

Con tante difficoltà hanno garantito il proseguimento dei servizi, anche di quelli non essenziali.

Un dipendente pubblico è un lavoratore come gli altri, non è peggiore o migliore, ha doveri e diritti.